Sul quinto numero 2022 di "In Fonderia", dedicato al futuro dell'auto, abbiamo ospitato un'intervista al prof. Carlo Mapelli, che ha fatto il punto sulla transizione green e sulle (realistiche) prospettive per il settore
Il Parlamento Europeo ha votato a favore della proposta della Commissione UE che prevede di bloccare completamente dal 2035 la vendita di nuove auto e nuovi veicoli commerciali leggeri ad alimentazione termica (benzina, diesel, ma anche GPL, metano e mild-hybrid), concedendo alle case produttrici di continuare a produrre furgoni e veicoli da trasporto commerciale leggeri fino al 2040.
La decisione dell’Europa ha alimentato sin da subito forti dubbi e preoccupazioni nel mondo politico, in quello industriale e nell’intera opinione pubblica. Se da un lato l’obiettivo principale della misura – raggiungere più rapidamente gli obiettivi del programma “Fit for 55”, che prevede la riduzione del 55% delle emissioni di CO2 entro il 2030 (rispetto ai livelli del 1990) – è ampiamente condiviso, dall’altro è chiaro che una decisione così drastica rischia di compromettere il comparto automotive e della componentistica italiano ed europeo, con il rischio di generare una forte crisi per il settore e la conseguente perdita di numerosi posti di lavoro.
Nonostante i rischi per tutta la filiera dell’automotive, la stessa normativa Ue così come è oggi non prevede in assoluto l’elettrificazione come unica strada: accogliendo le richieste di alcuni Paesi, tra cui Germania e Italia, non si è infatti chiusa definitivamente la porta alle tecnologie alternative. Nel 2026 la Commissione valuterà se riesaminare gli obiettivi tenendo conto degli sviluppi tecnologici, considerando la possibilità di dare il via libera all’uso di biocarburanti, carburanti sintetici o motori ibridi plug-in, se capaci di raggiungere la completa eliminazione delle emissioni di gas serra.
Ci sono ancora margini di manovra, quindi, affinché la transizione non coincida con la totale sostituzione dei motori endotermici con quelli elettrici, che porterebbe a un drastico ridimensionamento di tutta la filiera dell’auto europea. «Anche perché è nella pratica impossibile», dice Carlo Mapelli, professore ordinario al Politecnico di Milano, riflettendo sul futuro della mobilità – e con essa delle fonderie – in termini di transizione ecologica e decarbonizzazione. «Le scelte politiche fatte in ambito energetico determinano il futuro di un Paese. Grazie alle tecnologie e alle competenze di cui disponiamo possiamo essere ancora competitivi».
Professore, parlare di transizione ecologica così come viene prospettata dall’Europa è riduttivo. Siamo di fronte a una vera rivoluzione della mobilità. Sappiamo che questo comporterà dei cambiamenti epocali anche per le fonderie. In che misura, secondo lei?
Se la normativa Ue dovesse essere confermata così com’è oggi, è chiaro che la produzione di motori elettrici e lo sviluppo di una relativa filiera industriale avrebbero un impatto importante sulle fonderie, in particolare quelle più specializzate nella produzione di componenti per i motori termici. Per quanto riguarda trazione e generazione di potenza, ci sarebbe una riduzione dei getti nell’ordine del 70%. Meno per l’apparato frenante. Certamente ci sarebbe un importante ridimensionamento dell’attuale posizione strategica delle fonderie nell’ambito dell’automotive.
Sono numeri importanti. È giusto essere preoccupati?
Ci sono da risolvere ancora molte incognite prima che questo scenario si possa avverare. Va chiarita la disponibilità di elettricità, sia in termini di produzione sia di distribuzione. Oggi la rete non è adeguata a sopportare delle capacità di trasporto di energia elettrica intense come quelle che richiederebbe la conversione completa di un parco veicoli da motore endotermico a elettrico. Basti pensare all’adeguamento della dimensione dei cavi di un condominio necessario per ricaricare le auto nei singoli box. Si tratterebbe di aumentare in maniera significativa l’utilizzo di leghe di rame e alluminio, il cui approvvigionamento costituisce sia un problema geopolitico sia di equilibrio tra la richiesta improvvisa di così tanta materia prima e l’offerta cui solo pochi produttori possono rispondere. Ancora più fluido è il quadro della produzione di energia elettrica. Qui l’unica strada è il nucleare. Perché è pulito e sicuro. Ma al di là dei problemi “ideologici”, che sono più che altro di facciata, il problema vero riguarda gli investimenti necessari a realizzare nuovi reattori. Come ha dimostrato la Francia, costretta a nazionalizzare Edf, a oggi nessuna compagnia elettrica può permettersi di investire nel nucleare e farne una fonte davvero redditizia. Tutti questi sono problemi non banali, che certamente la transizione ecologica dell’automotive deve ancora affrontare.
Ma quindi c’è una terza opzione, oltre all’endotermico e all’elettrico? Possiamo prevedere un intermezzo rispetto al passaggio tout-court all’elettrico?
Continuo a credere che il mix energetico più efficace sia l’ibrido, che comunque comporta un consumo di combustibile fossile, oppure un ricorso ai biocombustibili, in alternativa ai carburanti tradizionali. Questo, però, richiede una pianificazione della gestione delle risorse boschive, della loro rigenerazione e delle biomasse.
Con che ricadute sul mondo delle fonderie?
La piattaforma ibrida è in realtà una grande opportunità per il settore, dato che affianca un motore termico a uno elettrico. Nelle configurazioni ibride sono contemporaneamente presenti i componenti tipici dei motori endotermici (basamenti, coppa dell’olio, corpo pompa dell’acqua, corpo pompa dell’olio, testata del motore, scatola del cambio, pistoni, albero a gomiti, carter dei cilindri, alloggiamento della frizione…) sia quelli tipici delle architetture elettriche (statore, rotore, portafusibili, alloggiamenti delle batterie, scatola degli ingranaggi, contenitore dell’elettronica di potenza, componenti della cassa del motore). Nella normativa Ue, è vero, si dice che non devono essere più prodotti motori endotermici. Tuttavia, la specifica spesso ignorata è che non andranno più costruiti motori endotermici alimentati completamente a combustibile fossile. La differenza è sostanziale. La battaglia da fare, a questo punto, è capire quale dovrà essere la frazione di combustibile fossile tollerata all’interno del combustibile. Avere chiaro quanto e in che tempi sarà dirimente per le fonderie come per l’industria manifatturiera a esse collegata.
Quindi, una domanda politicamente scorretta, per il fossile c’è ancora speranza?
Guardi, l’unica fonte energetica che non crea problemi è quella geotermica. Ma siccome non tutti i Paesi sono come l’Islanda, credo che a dei compromessi si debba per forza arrivare. Per prima cosa, va detto che, nel processo di decarbonizzazione, usare combustibile fossile non è per forza ostativo. L’emissione di CO2 prevede compensazioni, che vanno sfruttate, come anche finanziamenti per la realizzazione di bioraffinerie. Per esempio, se dispongo di un patrimonio boschivo sufficiente ad assorbire la CO2 emessa, posso decarbonizzare anche senza modificare completamente la piattaforma esistente. Poi c’è l’alternativa dei biofuel. In termini tecnici, va detto che stiamo facendo la stessa cosa che la natura fa in milioni di anni mettendoci a disposizione i giacimenti fossili. Noi semplicemente acceleriamo il processo. Penso poi agli spazi di partnership che potrebbero aprirsi con i vicini Paesi africani: potenziali fornitori di biofuel, cui noi contraccambieremmo con nuove soluzioni tecnologiche. Resta il problema, non da poco, se l’ecosistema sia in grado di rigenerarsi con la stessa velocità con cui noi pretendiamo di ottenere il biocombustibile. È evidente che dobbiamo per forza di cose evitare di deforestare e per questo servono nuove policy per la gestione delle risorse boschive e capire quanta emissione prodotta dai fossili siamo in grado di riassorbire con le risorse forestali. Se produco biocombustibili senza deforestazione, la CO2 che si genera viene rifissata dall’ecosistema, quindi abbiamo una circolarità energetica, sempre sotto il vincolo che il numero di alberi attivi resti inalterato o si accresca.
Torniamo alle fonderie…
Le fonderie, così come tutto il mondo della componentistica, devono lavorare per evitare che la transizione avvenga esclusivamente attraverso l’elettrificazione, in quanto per loro sarebbe lo scenario peggiore. Ma, come dicevo, secondo il mio punto di vista ci sono troppi ostacoli perché questo avvenga in tempi così rapidi. Oltre a quanto già detto sul fronte della produzione di energia elettrica, infatti, questo percorso deve fare i conti anche con i rischi legati alle difficoltà di approvvigionamento di metalli per le batterie (litio, cobalto, nichel, palladio), che hanno costi rilevanti e di cui esistono pochissimi fornitori. Di risorse ingenti di nichel dispongono solo Indonesia, Filippine e Russia. Da qui la scelta di non includere il nichel nelle sanzioni imposte alla Federazione Russa dopo l’invasione dell’Ucraina. Europa e Stati Uniti sanno bene che una mossa del genere bloccherebbe gran parte dell’industria metallurgica occidentale. Vale lo stesso discorso per il palladio, anch’esso prevalentemente di provenienza russa. C’è il pericolo, in generale, di amplificare la nostra dipendenza da Paesi che non ci garantiscono fornitura e oggi, con il caso del gas naturale, stiamo vedendo quanto tutto questo possa essere doloroso.
Ecco, ma alla luce di queste e altre criticità, si può immaginare una transizione che tenga sì la barra dritta sull’obiettivo finale, la decarbonizzazione, ma al tempo stesso lasci valida l’opzione della neutralità tecnologica?
Le difficoltà esterne attuali, partendo dalla crisi energetica in corso, ci impongono di dire che, se vogliamo uscirne bene, è necessario valorizzare le nostre competenze tecnologiche. Non possiamo buttare alle ortiche tutta il lavoro e i risultati ottenuti dall’industria europea, nella componentistica endotermica, in fatto di efficienza tecnologica.
Ma quindi è plausibile dire che l’Ue abbia fatto un passo più lungo della sua gamba?
Per com’è strutturata la nostra industria, dobbiamo studiare un percorso graduale che non ci esponga troppo al rischio geopolitico. Possiamo approvvigionarci di gas naturale da altre fonti, d’accordo. Ma senza essere vincolati a un singolo fornitore. Ecco perché anche i rigassificatori in questa fase sono fondamentali. Per i nostri standard produttivi dovremmo averne almeno il doppio rispetto a quelli di cui si parla. Perché se è vero che produrre energia con il gas comporta l’emissione di CO2, è pur sempre il 66% in meno rispetto a quella emessa per produrre la stessa energia con il carbone. Dobbiamo poi capire che spazi abbiamo per la produzione di biocombustibili, anche accoppiati con progetti di produzione di idrogeno, certo non da trascurare, e magari di energia elettrica da fonte nucleare, anche se quest’ultima mostra come detto problemi di redditività non banali. Si devono intersecare tanti contributi. Non possiamo puntare solo su elettricità o solo su idrogeno o solo su biocombustibile. Dobbiamo sfruttare la capacità tecnologica che abbiamo e alimentarla con più fonti, senza illuderci che esista un’unica strada per arrivare alla sostenibilità energetica e alla decarbonizzazione.
Direi che allora siamo di fronte a un’ambizione ancora maggiore rispetto a quella che si è posta l’Europa.
Dobbiamo diventare più efficienti. E nell’ambito dell’automotive l’ibrido, in questo momento, è il combinato migliore e più sostenibile per raggiungere questo obiettivo soprattutto per la mobilità urbana. Dobbiamo uscire dall’impostazione che le pressioni cinesi hanno portato nella regolamentazione europea, con un forte sbilanciamento verso la piattaforma elettrica.
Quanto c’è di “caccia al consenso” in questo direzioni assunte a Bruxelles che, stiamo notando, sembrano poco logiche?
Sono tutte scelte politiche. Dopo il sistema di tassazione, il mercato dell’energia è probabilmente il terreno più delicato nel quale si muove una classe politica e di conseguenza uno Stato. In Italia, nel dopoguerra, abbiamo imboccato strade che si risono rivelate virtuose. Abbiamo introdotto il gas nelle abitazioni, quando invece i francesi puntavano sul meno efficiente riscaldamento elettrico. I nostri tecnici si sono dimostrati lungimiranti nel dotare il paese di un parco di centrali elettriche a ciclo combinato, tra le migliori al mondo in termini di costi di produzione. Scelte politiche, appunto. Che si sono rivelate di successo e che oggi ricordiamo positivamente. Chissà se chi deve decidere, oggi, ha la stessa competenza e oculatezza di chi l’ha preceduto.
Intervista a cura di Antonio Picasso e Andrea Bianchi