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La manifattura europea tra sfide globali e modelli economici in crisi
21/01/2025

Ne parliamo con Andrea Beretta Zanoni, intervistato su "In Fonderia"

Dalla stagnazione tedesca alle difficoltà del sistema cinese, l’attuale contesto economico globale pone interrogativi cruciali per la manifattura europea e italiana, strettamente intrecciata con dinamiche internazionali sempre più complesse. Andrea Beretta Zanoni, economista, docente di Strategia e politica aziendale all’Università degli Studi di Verona e di Analisi strategica all’Università degli Studi Milano Bicocca, ci guida in un’analisi approfondita di questi scenari, commentando in questo contesto le evidenze emerse dall’analisi di bilancio delle fonderie italiane realizzata da Assofond.

Prof. Beretta Zanoni, l’analisi realizzata dal Centro Studi Assofond sui dati 2023 evidenzia una leggera flessione dei ricavi e una redditività comunque positiva. Alla luce della situazione attuale, possiamo considerare questo dato un assestamento fisiologico o un primo segnale di difficoltà più profonde?
Guardando i dati in una prospettiva statica, il 2023 è stato un anno tutto sommato positivo. Nonostante una lieve contrazione dei ricavi (-1,7% rispetto al 2022), la redditività sul capitale investito (ROI) si è mantenuta alta, toccando il 6,4%: un valore superiore al triennio 2019-2021 e comunque vicino agli anni migliori del settore. Tuttavia, credo sia necessario guardare ai dati secondo un approccio più dinamico: il 2023 ha evidenziato infatti un andamento tutt’altro che uniforme, con segnali di forte deterioramento già visibili nell’ultimo trimestre, che oggi sappiamo sono stati confermati nel 2024. Questa tendenza è stata influenzata da un rallentamento generale della manifattura europea, in particolare quella fortemente integrata con le filiere tedesche, che hanno subito una significativa frenata. Questa condizione non è limitata al comparto delle fonderie, ma tocca l’intero tessuto produttivo continentale, e dimostra una vulnerabilità strutturale di cui oggi si parla molto in Europa, anche grazie a quanto ha sottolineato il recente rapporto sulla competitività dell’Ue realizzato da Mario Draghi.

La diminuzione dell’indebitamento complessivo delle fonderie è un segnale positivo di maggiore solidità o maschera altre problematiche?
La riduzione dell’indebitamento potrebbe sembrare, a prima vista, un elemento positivo, indicando maggiore solidità finanziaria. Tuttavia, un’analisi più approfondita suggerisce una lettura diversa. Questa diminuzione non pare infatti essere tanto legata a una razionalizzazione strategica delle risorse finanziarie, quanto piuttosto a un aumento della prudenza a fronte di una congiuntura in peggioramento e, in alcuni casi, a difficoltà di accesso al credito. La contrazione del debito, sebbene in un contesto di livelli complessivamente bassi, sembra derivare da una maggiore avversione al rischio da parte delle imprese, probabilmente causata da una percezione di incertezza e dal timore per il futuro. Questo comportamento riflette una scelta conservativa che, se da un lato protegge le imprese nell’immediato, dall’altro potrebbe ridurre la loro capacità di investimento e innovazione, elementi essenziali per la competitività a lungo termine. È fondamentale monitorare questi segnali perché, in un contesto di bassi tassi di indebitamento, una ulteriore riduzione potrebbe indicare un arretramento della propensione imprenditoriale, con implicazioni negative per la crescita del settore.

Il valore aggiunto e l’EBITDA sono cresciuti rispetto ai valori degli anni precedenti. Come spiega questa dinamica?
Il 2023 ha beneficiato di un fattore favorevole: il calo dei prezzi medi delle materie prime. Questo fenomeno ha consentito alle imprese di ottimizzare i margini, grazie a un adeguamento dei costi di produzione più rapido rispetto a quello dei listini di vendita: una dinamica tipica degli effetti di trascinamento. In questo modo è migliorato il valore aggiunto, che si è riportato su livelli vicini a quelli pre-pandemia. Allo stesso tempo, l’EBITDA ha raggiunto il 10,9% dei ricavi, un valore che supera quello del 2022 e rappresenta il dato più alto degli ultimi sei anni. Tuttavia, va sottolineato che questo effetto positivo dovuto alla riduzione dell’incidenza dei costi delle materie prime non è probabilmente destinato a confermarsi: da quanto abbiamo visto fin qui, nel 2024 i prezzi non hanno subito particolari scossoni ed è verosimile quindi che si siano stabilizzati su questi livelli di incidenza.

Guardando al 2024, quanto pesano le difficoltà della Germania e le incertezze geopolitiche sulla manifattura italiana e sulle fonderie?
Le difficoltà della Germania hanno un peso significativo per la manifattura italiana, in particolare per il settore delle fonderie, data la forte integrazione delle nostre filiere produttive. La Germania è da sempre una locomotiva per l’economia europea e il suo rallentamento – con una crescita prevista vicina allo 0% per il 2024 – rappresenta un rischio sistemico. Senza considerare che la crisi di governo, ormai conclamata e con elezioni anticipate già fissate per il prossimo 23 febbraio, potrebbe ragionevolmente mettere in dubbio le prospettive di quella ripresa che i modelli econometrici ipotizzavano possibile per il 2025. Questo scenario non solo riduce la domanda diretta per i nostri prodotti, ma amplifica anche le incertezze nelle filiere, minando la stabilità complessiva dell’industria europea. Sul fronte internazionale, l’instabilità geopolitica, le elezioni negli Stati Uniti e le promesse di nuove politiche protezionistiche – come l’introduzione di dazi – aumentano ulteriormente le incognite. Per un paese come l’Italia, che vanta un surplus commerciale significativo con gli Stati Uniti, eventuali dazi rappresenterebbero un colpo duro per l’export, con ripercussioni dirette sul settore manifatturiero. In aggiunta, l’impatto di queste politiche potrebbe innescare fenomeni inflattivi sia in Europa che negli USA, con potenziali effetti a catena sulle politiche monetarie e sull’accesso al credito. I dazi, infatti, sono per loro natura inflattivi. Se Trump mantenesse le promesse, è verosimile che l’euro perderebbe forza nei confronti del dollaro, cosa che, se da un lato potrebbe in qualche modo ridurre l’effetto negativo dei dazi sull’export, dall’altro certamente porterebbe inflazione e potrebbe indurre la BCE a modificare il percorso di riduzione dei tassi iniziato negli scorsi mesi. Ma c’è di più: una politica di questo tipo creerebbe inflazione anche negli Stati Uniti, con conseguenze anche sulle scelte della FED. Questo quadro, già di per sé complesso, richiede strategie coordinate a livello europeo per mitigare i rischi e sostenere la competitività delle imprese.

Quali sono le priorità per il settore industriale europeo e italiano nei prossimi anni?
È fondamentale invertire la tendenza al sotto-investimento che caratterizza il nostro tessuto economico da ormai diversi anni. I livelli di investimento nella manifattura europea sono inferiori non solo rispetto agli Stati Uniti, ma anche a quelli di economie asiatiche come la Cina e il Giappone. Questa carenza di investimenti ha avuto un impatto diretto decisamente negativo sulla produttività e sulla capacità di innovazione delle nostre imprese. Per recuperare competitività è necessario sviluppare una politica industriale ambiziosa, che non si limiti a incentivi fiscali o misure temporanee, ma che crei un ecosistema favorevole per gli investimenti a lungo termine. Questo include un sistema finanziario efficiente, un tessuto produttivo fatto di imprese con dimensioni sufficienti a sostenere investimenti di un certo tipo, un accesso al credito più efficiente, il rafforzamento del know-how tecnologico. Solo attraverso un approccio integrato sarà possibile garantire la competitività e la sostenibilità del tessuto industriale europeo. Inoltre, l’Europa deve superare le divisioni interne e adottare una visione unitaria per affrontare le sfide globali, dal cambiamento climatico alla competizione internazionale. Servono investimenti all’altezza di quelli che vengono fatti negli Stati Uniti: questa è la sfida. La situazione geopolitica sta cambiando e questo impone necessariamente una serie di ripensamenti, fra cui anche quello relativo al debito pubblico europeo, perché questi investimenti, senza un debito comune, sono davvero difficili da realizzare.

Ce la farà l’Europa a restare competitiva a livello internazionale?
Certamente, in Europa qualcosa deve cambiare. Dopo il triennio di ripresa post- Covid, infatti, ci troviamo con ogni evidenza in un momento di svolta per i modelli di sviluppo tradizionali. Alle incertezze geopolitiche che ci trasciniamo ormai da tempo si sono infatti aggiunte la stagnazione economica in Germania, di cui abbiamo detto, ma anche la conferma della fragilità della Cina e del suo sistema economico, molto dipendente dalle esportazioni e vittima di una crescente deriva deflattiva. In questo quadro, le difficoltà del mercato interno cinese e le possibili nuove politiche protezionistiche da parte degli USA emergono come minacce concrete per l’Europa. Del resto, ci troviamo in un’epoca nella quale si nota con forte evidenza il paradosso della competizione tra modelli economici e sociali diversi: le economie occidentali si devono confrontare con sfide di consenso politico che portano, ad esempio, gli Stati Uniti a punire un’amministrazione uscente sotto la quale l’economia americana ha marciato su ottimi livelli. Dall’altro lato, abbiamo un competitor come la Cina che, pur facendo segnare performance economiche pessime, non vede la sua classe dirigente doversi confrontare con il problema del consenso. Questa competizione asimmetrica è e resta una debolezza per i Paesi occidentali, almeno nel breve termine; nel lungo invece i sistemi liberal democratici hanno risorse ben più significative da mettere in campo. A patto che non rinneghino sé stessi.