Dati Centro Studi Confindustria: Italia resta settima al mondo
La manifattura mondiale è tuttora sotto lo scacco della pandemia, dopo aver subito un forte shock che seguiterà a condizionarne i comportamenti per un tempo ancora indeterminato. E questo dopo aver registrato il più basso tasso di espansione dell’attività industriale dell’ultimo decennio e in una fase di contrazione degli scambi mondiali e degli investimenti diretti esteri.
Il dato è contenuto nel rapporto "Innovazione e resilienza: i percorsi dell'industria italiana nel mondo che cambia", realizzato dal Centro Studi di Confindustria.
La crescita annua del valore aggiunto manifatturiero reale a livello mondiale - si legge ancora nel rapporto - è stata pari all’1,8% nel 2019, in decelerazione per il secondo anno consecutivo, e su un livello molto prossimo a quello registrato nel 2008, ossia all’alba dello scoppio della Grande Recessione.
Secondo le attese, nessuna tra le principali aree industrializzate del pianeta sarà in grado di evitare nel 2020 una forte contrazione del valore aggiunto, ad eccezione della Cina, che registrerà una moderata espansione (+2,1%, il tasso comunque più basso da oltre tre decenni).
Il 2020 dovrebbe chiudersi con una crescita negativa del 5,1%, non lontana da quella registrata nel 2009 (-6,0%). Negli anni a venire l’architettura internazionale della produzione subirà cambiamenti importanti, che comporteranno una ridislocazione dei flussi commerciali e di investimento. In prospettiva la “soluzione del problema produttivo” è destinata ad assumere contemporaneamente forme differenziate, tra cui la possibile re-importazione (re-shoring) di fasi produttive già affidate a fornitori esteri o una loro ridislocazione a scala continentale (near-shoring).
La manifattura italiana
L’Italia compare ormai stabilmente al settimo posto della graduatoria mondiale dei principali produttori manifatturieri, con una quota del 2,2%, davanti alla Francia (1,9%) e al Regno Unito (1,8). E compare tra gli esportatori mondiali con la performance migliore: secondo il trade performance index elaborato da Wto e Unctad il nostro Paese occupa le prime tre posizioni al mondo in otto raggruppamenti settoriali su dodici, subito dietro la Germania.
L’impatto della pandemia sui livelli di attività della manifattura italiana è stato immediato e violento. Nei due mesi di lockdown (marzo e aprile) la produzione è diminuita mediamente di oltre il 40%, anche se con un profilo fortemente disomogeneo a livello settoriale (dal -92,8% della produzione di prodotti in pelle al -5,5% del farmaceutico). Il recupero dei livelli produttivi da maggio è stato pressoché istantaneo, così che nel giro di quattro mesi il livello di produzione è tornato intorno ai valori di gennaio con un incremento del 76% rispetto al minimo toccato in aprile. Ma le prospettive per i mesi autunnali sono tornate negative, in linea con l’aumento dei contagi a livello globale e con l’introduzione di nuove misure restrittive.
Il rallentamento produttivo dell’Italia non costituisce una anomalia nel confronto internazionale. Rispetto alle altre grandi economie europee l’Italia mostra anzi una contrazione dei tassi di crescita relativamente contenuta, oltre che una maggiore reattività allo shock pandemico.
Il deficit di crescita è però ormai strutturale. Agisce su di esso – oltre a una incertezza divenuta ormai permanente – la graduale erosione della domanda interna, che limita la possibilità per i produttori nazionali di trovare spazio sul mercato domestico. Spicca in questo ambito il crollo della componente pubblica degli investimenti (in costante flessione dal 2011), mentre la componente privata si è risollevata, anche grazie agli effetti positivi del Piano “Industria 4.0.
A partire dal 2014 si è avuta una fase di ripresa dei flussi di investimento, che ha riguardato i soli investimenti privati, arrivata fino al 2018 (tra 2014 e 2018 si registra una variazione positiva di quasi il 13%; ma il livello raggiunto è inferiore di quasi 20 punti percentuali rispetto al picco del 2007).
Il progressivo assottigliarsi dei livelli di attività non poteva essere senza conseguenze sulle dimensioni stesse dell’apparato produttivo. Una stima prudenziale della variazione cumulata del saldo per i soli anni 2017-2020 indica una contrazione del numero delle imprese superiore alle 32mila unità. Il numero delle entrate di nuove imprese sul mercato è divenuto di gran lunga inferiore a quello delle uscite, ovvero i processi di formazione di nuove imprese non sono più in grado – diversamente dal passato – di garantire l’espansione della base produttiva.
Al processo di selezione non ha corrisposto una riallocazione delle risorse verso le imprese rimaste: le imprese uscite dal mercato hanno portato fuori dall’economia le risorse e le competenze di cui disponevano, riducendo il livello del potenziale produttivo e aprendo vuoti all’interno dei territori (specie meridionali) in cui operavano.
Dal punto di vista dell’occupazione la drammatica caduta dell’output manifatturiero è stata quasi interamente assorbita dalla riduzione del monte-ore lavorate (-23%), a fronte della sostanziale tenuta del numero degli occupati complessivi (-0,6%). Hanno fatto da cuscinetto un’ampia gamma di forme di riduzione dell’orario, lo smaltimento delle ferie e l’utilizzo di congedi, il ricorso rapido e massiccio a strumenti di integrazione al reddito da lavoro (in primis la cig in deroga). Ma, naturalmente, ha contato fin qui anche il blocco dei licenziamenti (anche nel confronto internazionale). Sta cambiando la struttura dell’occupazione: flette al Centro-Sud (mentre mostra qualche segno di recupero al Nord); risultano in calo le donne, i lavoratori al di sotto dei 35 anni e la componente autonoma dell’occupazione.
L’uscita dalla pandemia coinciderà con cambiamenti importanti negli stessi driver dello sviluppo, nell’ambito dei quali un ruolo importante sarà svolto dalla transizione green. L’industria italiana affronta la sfida della sostenibilità ambientale potendo contare su un vantaggio strategico da first mover rispetto a molti dei suoi partner internazionali, avendo già da tempo introdotto un approccio “responsabile” alla produzione e al consumo di risorse.
Presenta infatti un ridotto impatto in termini di rifiuti solidi prodotti, grazie ad un approccio circolare rispetto all’utilizzo delle risorse (grazie alle attività di riciclo e recupero è stato infatti possibile re-immettere nel sistema economico l’83% circa dei rifiuti speciali prodotti in Italia, contro l’81% registrato in Germania, il 71% in Francia, il 60% del Regno Unito e una media UE del 53%) e un ridotto impatto in termini di emissioni di gas serra prodotti dalle attività di trasformazione.
Infatti, secondo le stime del Centro Studi Confindustria, la manifattura italiana si colloca al quarto posto tra le principali economie globali, al terzo nella UE, per minor intensità di CO2 (CO2 in rapporto al valore aggiunto), su livelli equivalenti a quelli registrati dalla manifattura tedesca.
Rispetto alla media UE, l’intensità delle emissioni di CO2 della manifattura italiana è inferiore del 31%. La bassa impronta di carbonio della manifattura italiana nel confronto internazionale è spiegata soprattutto da livelli di efficienza ambientale dei processi industriali tra i più elevati al mondo.